A Cura dello Studio Legale Ferrante e Associati
Nell’ampio genere del countertrade sono individuabili diversi sottotipi. Ciascuno varia dall’altro in ragione del peculiare assetto di interessi, a esso sottostante, che le parti intendono perseguire mediante l’operazione.
Ed è per tale ragione che la figura negoziale in esame non è univocamente qualificabile in una natura giuridica unitaria. La pluralità di opzioni interpretative a tal riguardo prospettate costituisce il riflesso della pluralità di sfaccettature concrete che l’operazione può assumere: il variare degli interessi sottostanti da perseguire non è irrilevante ma si ripercuote, in concreto, sull’articolazione giuridica dell’operazione.
In particolare, nel barter le parti si scambiano reciprocamente dei beni, senza alcun conguaglio in danaro. La configurazione di tale sottotipo del countertrade nella permuta è pressoché pacifica in dottrina. A sostegno si adduce l’argomento della riconducibilità dello stesso nella stessa nozione di permuta di cui all’art. 1555 c.c., siccome estensivamente interpretato tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza. Nell’ambito applicativo della stessa non sono infatti ricondotti solo ed esclusivamente i diritti reali, ma altresì, quelli di credito e le posizioni contrattuali. Coerentemente con detta lettura estensiva, si ammette dalla giurisprudenza costante la permuta di cosa presente contro cosa futura.
Ciò premesso, una volta qualificato il barter quale contratto unitario riconducibile al tipo della permuta, non è rinvenibile alcuna prestazione più caratteristica, sicché non è invocabile il criterio presuntivo dell’art. 4, paragrafo secondo, Convenzione di Roma 19 giugno 1980. Ne consegue che, salvo una diversa previsione delle parti, sarà applicabile la legge dello Stato con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto ai sensi del combinato disposto dell’art. 57 legge 218/95 e dell’art. 4, paragrafo primo, Convenzione citata.
Le prestazioni dedotte in contratto potrebbero consistere nel trasferimento di apparecchiature tecnologiche verso, in parte, il trasferimento di prodotti realizzati proprio mediante utilizzo di dette apparecchiature e, in altra parte, la dazione di una somma di danaro.
Questa ipotesi negoziale è qualificata alla stregua di contratto unitario, similmente al barter; ma da esso si distingue perché l’oggetto della controprestazione è, in parte, il danaro. Si suole pertanto individuare la stessa con il termine di buy-back.
Ben diverso dai sottotipi or ora esaminati è, invece, il counter-purchase, nel quale le parti concludono più contratti distinti, ancorché collegati: in forza di quello principale si ha trasferimento di beni o prestazione di servizi verso corrispettivo in parte in danaro e, in parte, in beni. Quest’ultimo aspetto è disciplinato dal contratto accessorio, in forza del quale una parte assume, appunto, l’obbligo nei confronti dell’altra di acquistare beni in pagamento parziale.
Essendo ravvisabile un collegamento negoziale, il contratto accessorio è disciplinato dalla medesima legge applicabile al contratto principale, salva la sola separabilità di una parte del contratto dal resto e sempreché la stessa presenti un collegamento più stretto con un altro Paese. In tale ultima ipotesi, a detta parte potrà applicarsi la legge di tale Paese, giusta la seconda parte del paragrafo primo dell’art. 4 della Convenzione citata.
Ulteriore sottotipo consiste nell’offset. Si tratta di una figura negoziale nella quale le parti convengono la compensazione tra debiti derivanti dai negozi nei quali si articola l’operazione. Segnatamente, una parte contribuisce a realizzare un prodotto mediante l’apporto di materia grezza ovvero manodopera verso il corrispettivo dell’obbligo di acquisto di alcuni prodotti del primo.
Con il termine countertrade si suole definire il contratto in forza del quale una parte trasferisce all’altra dei beni verso il corrispettivo di altri beni e non soltanto di danaro. La definizione è frutto di un’operazione di sintesi, essendo lo scambio economico in parola assai più complesso e non univocamente riconducibile nell’ambito di un contratto unitario. Invero, nel commercio internazionale, qualora gli imprenditori contraenti abbiano sede in Paesi diversi nei quali corrono monete non convertibili, si ricorre a tale modello al fine di addivenire ad uno scambio in compensazione.
È tuttavia controverso se le parti concludano un unico contratto ovvero una pluralità di contratti distinti, ancorché collegati. L’adesione all’una o all’altra impostazione non è scevra di conseguenze pratiche, ripercuotendosi sull’individuazione della disciplina applicabile.
Qualora si propenda per la natura di unico contratto, lo stesso sarebbe inquadrabile nel tipo della permuta in ragione del reciproco trasferimento dei diritti posto in essere da ciascuna delle parti contraenti. Non è peraltro escluso che si abbia comunque la dazione di una somma di danaro al fine di perequare l’eventuale differenza di valore tra le prestazioni.
Diversamente opinando, ciascuno dei contratti collegati sarebbe connotato dallo scambio della prestazione di beni o servizi verso un corrispettivo in danaro. Quest’ultimo però avrebbe il solo fine di misurare il valore dei beni o dei servizi strumentalmente alla compensazione, totale o parziale, tra il debito derivante dal medesimo contratto con quello derivante dall’altro contratto collegato.
L’opinione prevalente nega che possa, a priori e in astratto, stabilirsi il modello prevalente rispetto all’altro, ma afferma che debba, a posteriori e in concreto, interpretarsi la volontà delle parti, tenendo conto del complessivo assetto di interessi obiettivamente emergente dal regolamento contrattuale.
E così, sulla scia della considerazione per ultimo esposta, potrebbe ricondursi l’operazione né in un singolo contratto qualificabile alla stregua di permuta né in una pluralità di contratti collegati ma in un contratto misto.
Il profilo più problematico è, come s’accennava, costituito dall’individuazione della disciplina applicabile nel caso in cui le parti non si siano preoccupate di precisare la legge che deve regolare il contratto. Preliminarmente occorre tener conto della legge di riforma di diritto internazionale privato n. 218 del 1995 e, segnatamente, del rinvio che la stessa, all’art. 57, compie alla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 per la materia delle obbligazioni contrattuali. Giusta tale rinvio, dovrà tenersi conto dell’art. 4 della Convenzione citata.
Ciò premesso, tuttavia, la disciplina concretamente applicabile è individuata in ragione della previa qualificazione della natura giuridica delle diverse figure negoziali mediante le quali l’operazione è attuata.
Soltanto ritenendo che il contratto concluso dalle parti sia unitario e sia riconducibile al tipo della permuta, si applicherà la legge del Paese con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto, ai sensi del paragrafo primo del citato art. 4.
Diversamente, opinando nel senso che le parti hanno inteso concludere un unico contratto non inquadrabile nella sola permuta ma in una pluralità di contratti (c.d. contratto misto), lo stesso sarà regolato dalla legge del Paese della parte che deve eseguire la prestazione più caratteristica, poiché quest’ultima assurge a criterio presuntivo del collegamento più stretto, giusta il paragrafo secondo del citato art. 4.
Ancora diversa sarebbe la disciplina applicabile qualora le parti avessero concluso una pluralità di contratti distinti, ancorché collegati. La rilevanza giuridica assunta dal collegamento implica l’assoggettamento dei contratti accessori al medesimo regime giuridico ritenuto applicabile al contratto principale. È salvo però il caso in cui una parte del contratto sia separabile dal resto e presenti un collegamento più stretto con un altro Paese: a quest’ultima potrà applicarsi la legge di tale Paese, giusta la seconda parte del paragrafo primo dell’art. 4 citato.
Con il termine contratti di pubblicità si suole identificare, in dottrina, un’eterogenea categoria di contratti, connotati da taluni elementi distintivi ma accomunati dall’elemento della realizzazione di una campagna pubblicitaria.
In linea generale, l’impresa nel cui interesse è svolta la pubblicità è detta committente, mentre quella cui è affidato il compito di gestire la campagna pubblicitaria è detta agenzia pubblicitaria. Il messaggio pubblicitario è, poi, diffuso al pubblico giusta contratti ad hoc stipulati con apposite imprese che gestiscono i mezzi di comunicazione. E queste ultime, a loro volta, si avvalgono dell’ausilio di imprese il cui compito è raccogliere i messaggi pubblicitari.
Il criterio discretivo tra contratti di pubblicità (da un lato), sponsorizzazione e merchandising (dall’altro) va individuato, pertanto, nella circostanza che soltanto i primi mirano a realizzare una campagna pubblicitaria, mentre i secondi mirano a perseguire genericamente uno scopo pubblicitario. Nel caso della sponsorizzazione tale fine è perseguito persino indirettamente perché il ritorno pubblicitario in favore dello sponsor costituisce solo il riflesso dell’utilizzo, da parte dello sponsee, del marchio o dell’altro segno riferibile allo stesso. Così non è invece nei contratti di pubblicità, nei quali la realizzazione della campagna pubblicitaria costituisce l’oggetto immediato del contratto.
Ciò premesso, va ora analizzato il contratto di agenzia pubblicitaria. Trattasi segnatamente del contratto in forza del quale l’agenzia pubblicitaria si obbliga, nei confronti del committente, a progettare e a realizzare la campagna pubblicitaria verso un corrispettivo in danaro.
L’obbligazione contrattuale di cui è soggetto passivo l’agenzia pubblicitaria ha, pertanto, ad oggetto sia la prestazione di compiere tutto quanto necessario per ideare la campagna in ogni suo aspetto e fase sia nella sua effettiva realizzazione, addivenendo alla conclusione di contratti con talune imprese che gestiscono mezzi di diffusione.
È controverso se l’operazione in parola sia giuridicamente qualificabile come contratto unitario ovvero pluralità di contratti distinti, ancorché collegati.
A sostegno di quest’ultima opzione interpretativa depone l’argomento che si combinano i profili del contratto d’opera e del contratto di mandato. Di contro si obietta che l’unitarietà impressa dalle parti all’operazione non è solo economica ma anche giuridica, come si arguisce tanto dall’identità soggettiva della parte che sarebbe tenuta alle obbligazioni del mandatario e del prestatore d’opera (id est l’agenzia pubblicitaria) quanto dalla non scindibilità, secondo la volontà dei contraenti, d’una prestazione rispetto all’altra.
Gli argomenti per ultimo esposti inducono la dottrina e la giurisprudenza nettamente prevalenti ad avallare l’orientamento secondo il quale trattasi di contratto unitario.
Quanto alla disciplina, si invoca l’applicabilità analogica di quella dettata in materia di appalto di servizi. Ma la stessa non è idonea a regolare interamente il contratto in parola. Di peculiare rilievo, infatti, è l’obbligo di non concorrenza gravante sull’agenzia pubblicitaria e sullo stesso committente. La prima deve astenersi dal condurre campagne pubblicitarie per imprese operanti nello stesso settore merceologico del committente e rispetto ad esso concorrenti. Il secondo invece deve astenersi dall’incaricare più agenzie pubblicitarie al fine di progettare e realizzare campagne pubblicitarie concernenti il medesimo prodotto.
L’obbligo di riservatezza in relazione alle informazioni acquisite, gravante sull’agenzia pubblicitaria, secondo l’opinione nettamente prevalente costituisce corollario applicativo dell’obbligo di buona fede.
Da ultimo va precisato che le parti, nella loro autonomia, possono convenire quale compenso una somma fissa di danaro ovvero una percentuale della somma complessiva pari al costo dell’intera campagna pubblicitaria.
Una volta che la campagna sia stata ideata dall’agenzia pubblicitaria è necessario che il messaggio sia reso noto al pubblico avvalendosi di appositi mezzi di comunicazione. A tal fine la stessa agenzia pubblicitaria, giusta l’incarico conferitole dal committente in forza del contratto di agenzia pubblicitaria, conclude con l’impresa che gestisce i mezzi di comunicazione un contratto di diffusione pubblicitaria.
Trattasi, segnatamente, del contratto in forza del quale quest’ultima si obbliga nei confronti dell’agenzia pubblicitaria a mettere a disposizione spazi o tempi pubblicitari verso un corrispettivo in danaro.
Il contratto ora in esame assume un contenuto peculiare in ragione del mezzo di comunicazione scelto dalle parti contraenti al fine di veicolare il messaggio pubblicitario. E così, la diffusione può avvenire a mezzo stampa o radiofonica o televisiva o cinematografica ovvero avvalendosi di spazi all’aperto (mediante affissione di cartelloni, locandine etc.) ovvero, ancora, tramite internet.
Particolarmente problematica è la qualificazione del contratto in esame. Secondo l’orientamento nettamente prevalente, trattasi di un appalto di servizi. A sostegno si adduce l’argomento che l’impresa gerente il mezzo di diffusione scelto si obbliga a prestare il servizio dello spazio o del tempo pubblicitario convenuto con organizzazione di mezzi propria e gestione a proprio rischio, verso un determinato corrispettivo in danaro. In altri termini, sussistono i presupposti sulla base dei quali arguire che ricorra il tipo dell’appalto ancorché con le peculiarità derivanti dalla circostanza che si operi nel settore pubblicitario.
Tale circostanza è, tuttavia, enfatizzata da altra parte della dottrina, la quale ha obiettato che non sia corretto sussumere così semplicemente la figura negoziale in esame nel contratto di appalto di servizi, stante il carattere continuativo o periodico delle prestazioni.
Enucleando l’aspetto per ultimo evidenziato si propende per ricondurre, almeno in parte, il contratto di diffusione pubblicitaria nell’ambito della somministrazione. E, per tal via, si invoca l’applicabilità dell’art. 1677 c.c.
Ciò chiarito, va precisato che l’obbligo dell’impresa che gestisce i mezzi di diffusione di veicolare il messaggio pubblicitario è suscettibile, in talune ipotesi, di essere lecitamente non adempiuto; la mancata esecuzione della prestazione diviene, addirittura, doverosa nel caso in cui il contenuto del messaggio sia illecito.
Ben diverso rispetto a quello or ora esaminato è il contratto di concessione pubblicitaria. In forza di quest’ultimo una parte, detta concedente, incarica un’altra parte, detta concessionaria, di promuovere la raccolta di pubblicità e concludere i contratti di agenzia pubblicitaria con le rispettive imprese per conto della concedente ma in nome della concessionaria.
Trattasi di un contratto atipico nel quale sono presenti elementi tanto del mandato quanto dell’appalto. A tale conclusione perviene la prevalente dottrina muovendo dall’argomento che si ha la prestazione di un servizio da parte del concessionario ma quest’ultimo si impegna, altresì, a concludere contratti di agenzia pubblicitaria in nome proprio e per conto del concedente.
L’art. 4 della legge n. 192 del 1998 prevede che il subfornitore non possa, senza autorizzazione del committente, affidare a sua volta in subfornitura i beni o i servizi oggetto del contratto in misura superiore rispetto al cinquanta per cento di quanto convenuto. Salva, solo, la possibilità per le parti di fissare la soglia in misura maggiore, il legislatore sanziona con la nullità l’accordo che, in spregio del divieto, il subfornitore abbia concluso con il terzo.
Occorre, anzitutto, mettere in luce il rapporto che corre tra il citato art. 4 e l’art. 1, contente la definizione dello stesso contratto di subfornitura: mentre infatti, a norma di quest’ultimo, il contratto ha per oggetto, tra l’altro, prodotti semilavorati o materie prime fornite dalla committente, l’art. 4 letteralmente si riferisce alla sola subfornitura avente ad oggetto beni o servizi. Se si fa, pertanto, leva sul tenore letterale della disposizione in esame, bisogna ritenere che il suo ambito applicativo sia più circoscritto rispetto alla subfornitura intesa in senso lato, poiché il divieto di interposizione opererebbe soltanto nel caso in cui la subfornitura abbia ad oggetto beni o servizi. Sembra, tuttavia, prevalere il contrapposto orientamento, che vuole operante il divieto di interposizione in generale (e non soltanto per i beni o i servizi).
Va, poi, specificato che alla luce del rapporto di genere e specie, corrente tra appalto e subfornitura, si ritiene che, qualora non fosse stato espressamente inserito l’art. 4 ora in commento, in ogni caso alla subfornitura sarebbe stato applicabile il disposto contenuto nell’art. 1656 c.c., a norma del quale il subappalto è vietato (salvo che il committente abbia espressamente autorizzato l’appaltatore). Le norme rispettivamente dettate in materia di appalto e subfornitura, peraltro, hanno diversi ambiti applicativi, e precisamente: più ristretto è quello della prima (poiché vieta il subappalto in genere), mentre più ampio è quello della seconda (poiché legittima il subfornitore ad affidare a terzi il lavoro entro la soglia del cinquanta per cento di quello complessivo). Verosimilmente, la diversità del regime giuridico appena evidenziata trova la sua giustificazione nella necessità di tutelare le esigenze della moderna produzione industriale; nel caso del divieto di subappalto, invece, la ragione giustificatrice va posta solo ed esclusivamente nella tutela del committente.
L’art. 6 della legge n. 192 del 1998 espressamente sanziona con la nullità le clausole, inserite nel regolamento negoziale, in forza delle quali una delle parti ha il potere di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali; sono, peraltro, validi gli accordi che attribuiscano al committente il potere di precisare, entro i limiti e le modalità convenute, le quantità da produrre e i relativi tempi di consegna.
Si ritiene che la norma sia posta, anzitutto, a tutela del contrente debole (il subfornitore): da ciò sorge il problema dell’individuazione del soggetto legittimato a farla valere. In applicazione delle regole generali di diritto comune, infatti, la nullità può essere fatta valere da parte di chiunque abbia interesse e, soltanto nel caso in cui la legge espressamente lo preveda, il regime appena enunciato è derogato. Nel caso della subfornitura, di contro, il legislatore non sembra dettare alcuna deroga delle regole generali, poiché non conferisce la titolarità della relativa azione soltanto al subfornitore. Nonostante le argomentazioni esposte, va segnalato anche il contrario orientamento che, facendo leva sulla descritta finalità protezionistica per il contraente debole, ritiene sia l’unico soggetto legittimato a far valere la nullità. In ogni caso, sembra difficile, in difetto di un’apposita previsione normativa in tale senso, ritenere che la nullità in parola sia sottratta al potere officioso del giudice: ne consegue che egli possa (e debba) rilevarla a prescindere dalla circostanza che sia stata formulata apposita domanda di parte.
In questa sezione pubblichiamo gli articoli sul contratto di subfornitura e sulla disciplina del contratto di subfornitura.
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